Uno stato di ricezione
di Andrea Guastella e Salvo Caruso
Quando hai iniziato a pensare a te come a un artista? Mi sono sempre considerato un operatore visivo. Ho frequentato l’Istituto d’arte, poi l’Accademia, subito dopo ho lavorato come scenografo. Mi viene il sospetto che, nonostante non abbia mai pensato a me come a un artista, in realtà io non abbia mai avuto un’altra scelta. Henri Focillon ci ricorda dell’opera d’arte che “lo spazio è il suo dominio, non lo spazio dell’attività comune, quello dello stratega o del turista, ma lo spazio trattato da una tecnica che si definisce come materia e come movimento. L’opera d’arte è misura dello spazio, è forma”. Qual è il tuo rapporto con lo spazio-tempo? Considero lo spazio come contenitore di azioni e il tempo come ricordo o progetto. I tuoi lavori mettono la sordina ai sentimenti. La storia dell’uomo, nei paesaggi, è quasi assente. Quando invece è presente, come accade ad esempio nei ritratti, si rovescia talvolta in immobilità monumentale. Paesaggi e ritratti nascono da sensazioni legate alla memoria o a equilibri visivi che suscitano in me un’emozione, uno stimolo, di cui mi approprio totalmente solo dopo averle trattate attraverso colori o segni. Come Cézanne leggi anche tu nel mondo un insieme di solidi geometrici. Insegno in un Liceo artistico una materia codificata sotto il nome di “Discipline geometriche”. Questa esperienza mi ha dato l’opportunità di comprendere la complementarietà tra istinto e metodo tecnico. Se attraverso la proiezione geometrica l’uomo riesce a misurare e irretire le forme della natura in immagini astratte, con questi elementi può dar vita ad un’altra natura non meno vera della prima. Ci sono anche dei paesaggi e delle figure un po’ sfocati. Cosa comporta questa discontinuità? Durante la mia esperienza di teatro visivo in veste di scenografo, ho iniziato una ricerca sui gesti astratti, ossia quei movimenti che non rimandano a significati codificati e che a volte rivelano un’estetica e una forza emozionale. Nei paesaggi, invece, ho interpretato le vibrazioni presenti in tutto ciò che è vivo e che manifesta una tensione alla crescita. Spiegami un po’ le tappe che conducono all’opera finita. Che io ricordi, non ho ancora realizzato un’opera che possa ritenere finita. Quando mi capita di rivedere i vecchi lavori ho sempre la tentazione di modificare o correggere qualcosa. Partendo da ciò che mi circonda, vado alla ricerca della sua proiezione interiore. Il passaggio successivo è la trasposizione grafica e cromatica. Nell’arte non ci sono guide. Ci sono, però, compagni di strada. Quali i tuoi riferimenti tra i contemporanei e nel passato? I miei modelli sono sin troppo evidenti, anche se continuo a scoprire con stupore che la fruizione e la conoscenza stratificate in me inconsapevolmente riemergono nelle mie scelte estetiche e formali. Siamo agli inizi del ’900. In una terrazza assolata, sul Mar Nero, Tolstoj e Gorkij discutono d’arte con passione. Lì accanto, Cechov giocherella con il suo cappello. “Che cos’è l’arte per te”, chiede Gorkij a Tolstoj. “È l’uomo che ascende verso Dio”, risponde il grande scrittore. “E per te?”, incalza Tolstoj. “No, è Dio che scende dentro l’uomo”, afferma il futuro rivoluzionario. “Anton”, esclamano allora tutti e due, “invece di giocare col cappello, ci dici che cos’è per te l’arte?”. “L’arte”, risponde Cechov, “è catturare quel raggio di sole con il mio cappello”. E per te? L’arte è il manifestarsi di una sensibilità, è un vedere senza il filtro di chi già sa o si illude di sapere, è uno stato di ricezione amplificato e che in alcuni momenti si esalta a tal punto da trasportare nell’originalità. Tra i tuoi lavori in mostra c’è un giovane nella posa dell’uomo vitruviano con alle spalle una città attiva, in costruzione, immersa nell’azzurro. Cosa ti aspetti dal domani?